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L’estate di Samuele

di Sara Lattanzi

 

 

12 GIUGNO 2011. Doveva avere inizio l’estate perfetta di Samuele l’estate nella quale si sarebbe divertito con gli amici, l’estate nella quale forse avrebbe trovato il coraggio di dichiararsi alla ragazza che tanto amava da quasi tre anni, l’estate nella quale voleva cambiare, diventando un “nuovo” Samuele, senza paura; insomma doveva essere l’inizio di una nuova vita per lui. Purtroppo non siamo noi a dettar legge al nostro destino,  decide da solo …e a volte in  peggio. Samuele era un ragazzo allegro, solare e molto vivace, ma da tre anni era diventato un Samuele diverso, senza più voglia di vivere; usciva solo in estate, diciamo che erano gli unici tre mesi che gli piacevano. Durante l’inverno non usciva mai, se ne stava sempre chiuso in casa a scrivere e ad ascoltare musica; di tanto in tanto usciva in giardino per aggiungere qualche pezzo alla casa di legno che pian piano aveva quasi finito di costruire. A Samuele l’inverno non piaceva, anzi lo odiava! Perché nell’inverno di anni prima suo padre era morto in uno stupido incidente d’auto, mentre stava andando a comprare dei nuovi pezzi da aggiungere alla casa di legno in giardino. Restando tutto l’inverno al suo paese, Samuele, non voleva uscire, perché tutto gli ricordava suo padre, a partire dallo stretto vialetto davanti a casa, che doveva percorrere per uscire.

Nell’estate di quel 2011, Samuele aveva deciso di voltare pagina; voleva farlo per suo padre, voleva ricominciare a vivere. Tutto ebbe inizio dalla proposta di sua madre, di trasferirsi per  i tre mesi estivi a Sansepolcro, un paesino della Toscana, dal suo migliore amico Lorenzo, che forse avrebbe potuto contribuire a fargli dimenticare il passato.

Ogni giorno uscivano, si divertivano, scherzavano e ridevano: Samuele si era fatto dei nuovi amici e non passava giorno in cui non usciva.

Lui aveva una grande passione: la  sua ape, un mezzo chiuso dove il conducente guida all’interno di una cabina metallica, con il quale si può girare in città come un normale motorino, ma in più si può personalizzare con degli adesivi o con delle vernice colorate e purtroppo si possono apportare delle modifiche al motore. Come quasi tutti i maschi, anche Samuele, convinto dai suoi amici, durante quell’estate decise di modificarla. Dopo averla modificata. Dopo averla modificata passava giornate intere in giro con la sua ape,forse per lui la velocità era modo per poter sentirsi libero, un modo per dimenticare il passato e fare spazio a nuove emozioni! Fatto sta che Samuele aveva sedici anni e, come tutti a quelli a quell’età era molto superficiale nel valutare i pericoli.

Samuele ha sedici anni tuttora, poiché un giorno, in un pomeriggio, il suo destino decise di volerlo ragazzino per sempre… il suo destino lo volle vedere sempre con quel sorriso e quella serenità che in quell’estate, nella “sua” estate era riuscito a conquistare. Fatto sta che il 28 agosto. Samuele partì con la sua ape per andare al cimitero da suo padre, aveva una lettera con sé che voleva lasciare nella mensola della lapide della sua tomba; ma né lui, né la lettera arrivarono mai!!

Samuele, alle 16:47 di quel giorno si schiantò addosso ad una autovettura gialla che veniva  dal verso opposto al suo. Si era distratti??! Non l’aveva vista??! Oppure era stato uno stupido caso??! Nessuno lo potrà mai sapere. Ma quel giorno non tornò a cena dall’amico Lorenzo, non uscì come d’abitudine a prendere il gelato e non chiamò sua madre per dirle che era tutto a posto.

Samuele morì sul colpo, dell’ape non ne rimase niente… e furono i vestiti a tenere compatto il suo corpo. L’amico andò a rivedere l’ape qualche giorno dopo nel deposito dello sfascia carrozze del paese… e, incastrata  tra lo specchietto e lo sportello di sinistra o almeno tra quello che ne rimaneva, trovò una lettera ancora integra; era la lettera che il giorno dell’incidente Samuele stava portando a suo padre; dove c’era scritto:

“Caro papà…non sono mai stato un grande genio nello scrivere lettere…ma questa, te la voglio scrivere! Volevo dirti che finalmente ce l’ho fatta, sono tornato il Samuele di sempre, quello che rideva per ogni cosa, quello che costruiva la casa  in giardino con il suo papà… Ce l’ho fatta anche a coronare il mio  sogno, anche se so che  a te non sarebbe andato poi così bene, perché hai avuto sempre paura quando io andavo in giro con il mio mezzo; ho modificato l’ape, ora raggiungo i 90 km/h, ma tranquillo, non succederà mai niente, perché sarò prudente e so che mi guarderai sempre da lassù…

MI MANCHI…Vorrei riabbracciarti anche se solo per pochi istanti…

                                                                Il tuo Samu…”

Forse suo padre lo aveva guardato quel giorno e forse, vedendolo così felice, lo ha rivoluto vicino a sé per poterlo riabbracciare… Ma si sa, per raggiungere una persona che non c’è più, dobbiamo non esserci più nemmeno noi! E così fu.

Samuele se ne andò alla fine di quella che per lui era stata l’state più bella di tutte!! E se ne andò con il sorriso sulla faccia; forse perché nel momento in cui ha visto che la sua vita stava per finire, ha capito che avrebbe potuto rivedere suo padre, forse per il pensiero che finalmente rivedendo suo padre avrebbe potuto finire la sua casa di legno insieme a lui. O forse, semplicemente, perché aveva ottenuto tutto ciò che voleva.

Aveva avuto la “sua” estate, senza nessun momento di tristezza e, diciamo che da una parte, anche per i suoi conoscenti il finale era stato il dramma, per lui è stato il finale più bello di tutti: riavere suo padre, riacquistando così pienamente la felicità e la spensieratezza di un tempo, anche se ciò è stato possibile solo tramite la morte.

Ogni estate ci lascia un ricordo, bello o brutto che sia; quell’estate si è portato via Samuele, ma ha fatto si che ricordandola, l’avremmo identificata come: “l’estate di Samuele” in cui tutto sembrava così perfetto, in cui tutto sembrava andare per il verso giusto, ma purtroppo non si può mai programmare l’andamento della nostra vita, poiché è essa è imprevedibile.

Si dice che l’estate duri meno di un flashdack, poiché quando finisce si porta tutto via con se, emozioni, momenti passati, ci restano solo momenti congelati da una macchina fotografica e ricordi…ricordi che navigano senza sosta nella nostra testa e a volte, come nel caso di questa estate, possono far male!! Ricordando qualsiasi estate, sorridiamo sempre, poiché l’estate bella o brutta che sia stata, è il ricordo più prezioso che una persona possa avere, perché è proprio in estate hanno il coraggio di cambiare, di vivere al meglio la loro vita, di divertirsi. Forse perché il sole. Il bel tempo, quel cielo azzurro che risplende fino tardi per noi, danno speranza, danno forza; ci fanno sperare che nell’arco di quei tre mesi di tempo, qualcosa cambi,qualcosa di nuovo succeda; perché l’estate è vista da tutti come un momento di pausa, un momento in cui si può fare tutto senza essere giudicati. L’estate è diversa a seconda degli occhi di chi la guarda,: per un giovane, l’estate è il momento di svago assoluto, niente scuola, niente compiti, è il momento in cui può divertirsi senza tanti pensieri; per un adulto l’estate è un momento atteso per poter staccare la spina dal lavoro e rilassarsi al mare o in montagna con qualche giorno di ferie e infine per gli anziani l’estate è vista come un traguardo, poiché sanno che sono riusciti ad arrivarci e dopo essa non saranno mai quanto gli resta. Resta il fatto che l’estate riesce ad imprimerci una sorta di cicatrice nella mente, poiché ci farà sempre ricordare qualcosa, in questo caso ha lasciato una cicatrice che porta il nome di Samuele.

E come dice Charlie Chaplin:

“Canta, ridi, balla e ama… Vivi intensamente ogni momento della tua vita… prima che cali il sipario… e l’opera, finisca senza applausi…”

Samuele in quell’estate era riuscito a vivere la sua “opera” ovvero la sua vita al meglio; e per lui è finita con una marea di applausi, poiché non ci poteva essere finale migliore che riavere suo padre al proprio fianco… ovvero riavere la sua VERA vita.

 

 

 

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Eterno ritorno

di Benedetta Aridei

 

Dove sei? Perché te ne sei andata? Non mi hai nemmeno avvertita, potevi lasciarmi qualcosa.

Mi chiedi cosa, ma non lo so. Potevi lasciarmi tutto, o solo un sapore o quel profumo di mare, o permettere al sole di non nascondersi; non abbandonarlo là, nelle tenebre.

È che, quando ci sei, passi velocemente, sei quasi effimera, irraggiungibile, e dannatamente fragile. Basta poco, troppo poco, per rompere quell’armonia che porti con te.

Ma il problema non è solo questo. Perché quando non ci sei, quando te ne vai, come fai adesso, come fai sempre, porti via tutti. Non ti concedi più di quel limite che hai stabilito da sola e sia benedetto chi riesce a goderti fino in fondo, chi t’inspira cogliendo la tua essenza, chi ascolta le tue melodie fino ad averne abbastanza, in quel poco tempo che rimani per tenerci compagnia, che poi poco non è, ma è ladro. Ti ruba gli attimi, i secondi.

Vuole fare l’avvocato, “che te ne fai dei secondi? Non ti servono”.

Lasciami stare, tempo. Fermati. Per un po’, non ti chiedo tanto.. Voglio abbracciare i miei nonni, carezzare le loro rughe, ruscelli piccolissimi, e la mia mamma, e sorridere alle sue prime preoccupazioni; voglio abbracciare quest’aria, ancora una volta. È così diversa dalle altre.. È tua.

Sei sempre così, estate. Voluta, sperata, agognata, desiderata, attesa. Se la gente potesse, ti chiuderebbe in una scatola. Anzi no, in una teca trasparente, così da ammirarti tutto il giorno, e tutta la notte, perché la tua bellezza è pura, innocente, qualcosa che meriterebbe di essere esposto nel museo più prestigioso, perché nessuno è così miserabile da non poterti vedere o vivere.

Ti terrebbero lì, come simbolo di speranza, e ogni tanto farebbero capolino per vedere se ci sei, per capire se possono immergersi nei tuoi ricordi o se hai di nuovo fatto la fuggitiva.

Perché sei così, non hai padroni. Vaghi nei cuori della gente, così, senza sosta. Passi quasi per caso, come per dire “ci sono anch’io”. E ogni tanto qualche ventricolo ti piace più degli altri, allora costruisci la tua dimora e per un po’ rimani.

Giusto quel tempo per lasciare la tua scia, e poi riparti. Sei così, una grande esploratrice; i viaggi che hai fatto tu, nessuno mai. Io, dentro un cuore, non ci sono mai andata. Mi piacerebbe tanto visitarne uno.. Perché te ne sei andata? Potevi portarmi con te, non dovevi lasciarmi.

Raccontami, perlomeno, com’è fatto un cuore. Non parlarmi degli aspetti anatomici, salta la biologia, arriva alla carne. È confortevole? È caldo? C’è un po’ di spazio per stare stesi? E si vedono le stelle da lì? Dici che si vede tutto..

Allora torna, estate, torna! Preparo le valigie e poi ce ne andiamo così, io e te, mentre rido sentendo la tua brezza che mi inebria, mentre ti prendo per le tue infinite mani.

E voleremo così, come aquiloni colorati, così, in mezzo alle nuvole e in mezzo al caldo; libere.

Ma l’estate non può. Non può concedersi a una sola persona. Allora lascia dei souvenir. Il problema è trovarli, perché non sai dove si nascondono, sono dappertutto e non sono da nessuna parte.

E cosa sono? Possono essere tutto. Una canzone, un mare (perché non sono mica tutti uguali), un posto, una lettera, una mamma, la famiglia, una persona. Quella persona. Dove se n’è andata, anche lei? Dove si è nascosta tra la moltitudine di gente? Dici che è qui vicino a me, che i tuoi souvenir li hai nascosti da queste parti?

Adesso che me lo fai notare, ti vedo. Dappertutto! Ti vedo nella mia famiglia, perché è calda, e mi ricorda il tuo calore, ed è solare, nonostante quelle costanti ombre che avanzano con l’età, e l’esperienza e la saggezza. Ti vedo nelle canzoni che proiettano davanti a me film muti di ricordi, ti vedo nel mare azzurro, poi blu, poi quasi verde, ma sempre infinito. Ti vedo nel posto dove ti ho incontrata per la prima volta, in quella lettera che ho ricevuto quando c’eri tu a colorare le giornate, sei un’ottima pittrice. E ti vedo anche in quella persona. Ed è una persona, tra la gente. L’ho trovata, e cammina al mio fianco.

Adesso, che ho capito che non te ne vai mai, tutto è più chiaro. E sai? Avevi ragione tu; un cuore è caldissimo, soprattutto se è uno di quelli dove hai lasciato il tuo souvenir.

E tu, estate, per risultare bella, non hai bisogno quasi di niente, tanto sei meravigliosa, ma durante il mio, di viaggio, ho scoperto che qualche cuore ha bisogno di una piccola dose in più. Anche il mio cuore è così. Ho bisogno di qualcosa in più, non mi basti mai.

Allora quando ti sento più lontana, stringo forte la mia famiglia. Perché non c’è sempre bisogno di strafare, basta poco per farti diventare indimenticabile, per farti assumere quel carattere irripetibile che possiedi già da sola.

Ed è bello averlo capito e non essere più ciechi. È bello vedere qualcosa, vedere la luce, vederti dappertutto. E sei immensa, la copri tutta, la mia vista, la riempi.

Allora siamo d’accordo, ti lascio andare, tanto è come se rimanessi. Ci vediamo quando torni, ma con la scusa dei souvenir, non stare via troppo.

Ciao, estate, fai buon viaggio, in mezzo ai cuori della gente, anche di quella gente fredda che ha bisogno del tuo calore più di me, ma, se puoi, non dimenticarti del mio, di cuore, dei suoi battiti che pulsano al ritmo cadenzato, immutabile, rassicurante del tuo eterno ritorno.

 

 

  

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Stella d’estate

di Vera Ugolini

I suoi grandi occhi blu scrutavano il cielo.

Quella notte, il loro blu intenso rifletteva l’infinità di stelle sparse nella volta celeste.

Ma ad Elenie non interessava l’astronomia o la bellezza di quei piccoli diamanti del cielo.

I suoi capelli ramati oscillavano nella brezza notturna, e non sembravano trovare pace. Proprio come lei. La sua ricerca era senza sosta, e più il tempo passava, più si sforzava di frugare tra i nascondigli di quello specchio infinito.

La piccola bimba sedeva in riva al mare, con le gambe raccolte e le braccia conserte. Le era sempre piaciuto ascoltare il rumore delle onde frangersi sulla costa, e l’odore di salsedine le ravvivava i sensi. Respirò profondamente, assaporandosi il mare, assaporandosi l’estate.

Per lei, mare era sinonimo di estate.

Li vedeva come una cosa sola, una sorta di formula per la felicità.

Guardò l’orologio al polso. Mezzanotte passata. Di solito non tardava così tanto.

Che si fosse dimenticato di lei?

Il cielo mutò per un instante. Una scia di luci lo aveva squarciato all’improvviso, ed era caduta nel mare. Poi tutto tornò come prima. Una luce bianca illuminava le acque scure dal profondo, e si stava avvicinando lentamente alla costa. Quando fu vicina alla riva, la luce sparì, e al suo posto uscì dalle acque un bambino.

***

La ragazza aprì gli occhi.

Dopo qualche istante, si rese conto di essersi addormentata sulla spiaggia. Lentamente riprese possesso del suo corpo, e si mise a sedere. Elenie si trovava di fronte al mare, su cui si rifletteva uno spicchio di luna bianca. Il cielo era senza nuvole, limpido e brillante.

Per la prima volta dopo dieci lunghi anni, la ragazza si sentiva di nuovo a casa.

Ne era passato di tempo, da quando era solo una piccola bambina che giocava in riva al mare. Era passato veramente tanto tempo, soprattutto da quella notte, la più speciale della sua vita.

Elenie sospirò. Era la notte del suo diciottesimo compleanno, ma non sembrava in vena di festeggiare.

Aveva un’inspiegabile sensazione di vuoto, di mancanza.

Chiuse gli occhi.

Ascoltò la dolce musica delle onde frangersi sulle rocce, scivolare sulla sabbia ormai tiepida. Sentì il vento sfiorarle le orecchie, accarezzarle la pelle. Inspirò il profumo del suo mare, della sua estate. Sì, finalmente aveva ritrovato la sua vera casa.

In quel momento, innumerevoli ricordi le riempirono la mente. Ricordi della sua infanzia, ricordi di una famiglia felice, ricordi di forti amicizie, ricordi di estati soleggiate, ricordi del suo primo amore. Lee, il bambino venuto dal cielo.

A quel pensiero, la ragazza rabbrividì. Invano tentò di ricacciare indietro quel doloroso ricordo, fino a quel momento sperduto in un lontano angolo della sua memoria. Eccolo, di nuovo in superficie, crudelmente vivido e reale.

Riaprì in fretta gli occhi. Senza pensarci, guardò il cielo. Tanti puntini luminosi brillavano indisturbati.

All’improvviso, vide qualcosa muoversi velocemente.

La ragazza sbarrò gli occhi, e si ritrovò in un secondo in piedi. Poi vide meglio di cosa si trattava.

L’aereo lampeggiava a intermittenza, e in poco tempo attraversò tutta la volta celeste.

Che stupida. Credeva davvero … ?

Scosse la testa, e si rimise a sedere.

Già, è proprio vero che il primo amore non si scorda mai.

Anche se ad un’età così giovane, Lee era stato per lei un amico speciale, anzi, il suo migliore amico. Qualcuno che non si stancava mai di passare del tempo insieme, un compagno di giochi quando era allegra, una spalla su cui piangere quando era triste.

E poi, lui era un bambino fuori dal normale. Le parlava sempre della sua vita su una stella, di come spesso si sentiva solo.

Per la prima volta dopo così tanto tempo, Elenie ne sentiva davvero la mancanza. Per lei, Lee rappresentava tutta la sua infanzia, la Elenie di un tempo.

La ragazza si guardò le mani, i capelli. Il tempo l’aveva rimaneggiata, mutata. Quella giovane parte di lei era come sepolta nel suo spirito, mancante. E invece di accettare il cambiamento, il pensiero le faceva solamente paura.

Ma ciò che le faceva ancora più paura, era pensare a lui.

Chissà se esisteva ancora, da qualche parte nel cielo. E se esisteva, chissà se pensava a lei.

Elenie provò ad immaginarsi come dovesse essere cresciuto, ma non ci riuscì. Lee le ricordava la favola di Peter Pan, il bambino che non voleva crescere. Ma Elenie non era stata la sua Wendy. Lei non aveva accettato di seguirlo su una stella.

Una piccola lacrima le bagnò la guancia.

Il cellulare squillò. Un nuovo messaggio. I suoi amici le inviavano i primi auguri di compleanno.

Elenie si accorse incredula che era già passata la mezzanotte. Doveva tornare a casa.

Si alzò, si stiracchiò le gambe, e diede un’ultima occhiata al cielo, speranzosa. Ma non trovò nulla di cambiato. Allora si voltò, e cominciò a camminare lungo la via di casa.

“Elenie.”

I suoi piedi si bloccarono, diventati all’improvviso pesanti. La ragazza non ebbe il coraggio di voltarsi. Ma la voce non continuò. Il cuore le saltava in gola, il suo corpo era paralizzato.

“Chi sei?” mormorò, senza quasi muovere le labbra.

La voce riprese, un po’ addolcita. “Non sei cambiata affatto.”

Elenie aprì la bocca, ma non seppe cosa dire. Raccolse tutta la sua forza di volontà, e si voltò. Illuminato dalla luna, un ragazzo dagli occhi di smeraldo la fissava intensamente.

“Lee.” fu l’unica parola che Elenie riuscì a dire.

“Ti sono mancato?” disse Lee, con un mezzo sorriso.

“Io... io credevo che non saresti mai più tornato.”

Lee tornò serio. Si avvicinò di qualche passo alla ragazza, senza smettere di guardarla.

“Perché sei qui?” continuò Elenie, mentre la sorpresa cominciava a lasciare il posto alla rabbia. Come aveva potuto abbandonarla, come aveva potuto non tornare più? Non se lo era mai spiegato.

“Sono qui per chiedere il tuo perdono.” Lee continuò ad avvicinarsi. “Io... ecco, io ho avuto paura. Ho avuto paura di affezionarmi a te, ho avuto paura di rimanere per sempre qui sulla Terra. Ho avuto paura di non rivedere più la mia famiglia, di perdere la mia vita, la mia identità. E senza pensare, chiesi a te di abbandonare tutto per me. Sono qui perché solo adesso ho capito. Solo adesso so che sei l’unica persona che mi abbia mai conosciuto, che sei l’unica persona che mi abbia mai amato per quello che sono.”

Elenie guardava in basso, ma il ragazzo le alzò il viso. Gli occhi blu di Elenie brillarono nel buio.

“Finalmente, adesso ho capito che voglio stare con te, per sempre.”

Elenie non poteva credere che tutto ciò fosse reale. Quella scena se l’era sempre immaginata nei suoi sogni, ma adesso che stava realmente accadendo non le sembrava possibile.

“E la tua stella?” chiese la ragazza.

Lee la strinse a sé. “Sei tu la mia stella, l’unica che conta davvero.”

Uno sguardo, un bacio.

E fu così che Elenie ritrovò sé stessa e la sua felicità.

Ma soprattutto, fu così che cominciò l’estate più bella di tutta la sua vita.

 

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Addii

 di Beatrice Fanucci

Ed eccoci qui, alla fine. Fine dell’estate. Ero sola nella mia stanza della casa che avevamo affittato nel villaggio vacanze, a fissare le valigie chiuse. Tutto era ormai pronto per il ritorno a casa. Non volevo tornare a casa. Casa era l’ultimo posto in cui desideravo essere in quel momento. Non volevo lasciare andare quell’estate. Quelle persone, quelle emozioni. Era irrazionale, irragionevole, sperare di congelare il tempo ed impedire all’inverno e alla sua carceraria quotidianità di arrivare. Non poteva durare per sempre, quell’estate e lo sapevo. Ma era quello che desideravo: un’infinita estate. Oh, forse era il momento. Forse era il fatto che abbandonare quelle persone, il fulcro di quella vacanza, mi faceva più male di quanto avessi immaginato. Forse, con il tempo, avrei cessato di pensare alla mia vita di casa con disgusto ed avrei ricordato quei momenti di sole con infinita dolcezza, ma niente di più. Forse un po’ di malinconia, ma sarebbe stata fievole e fugace. In quel momento però no. In quel momento l’unico sentimento che mi gonfiava il cuore d’angoscia e gli occhi di lacrime era profonda ed amara tristezza. La parte peggiore della situazione era che non riuscivo ad impedire ai ricordi di aggredirmi la mente. Sembravano farlo apposta. Parevano goderci nel farmi stare peggio di quanto già non stessi, ricordandomi ciò che stavo per perdere per sempre. Per sempre. Era quello il vero problema. Quel concetto definitivo. Nessuna possibilità di evasione dal già scritto. Non sarei mai più tornata lì, ergo non avrei mai più rivisto le persone che lì avevo conosciuto. Ricordai, maledicendo quel pensiero ed il dolore ch’esso portava, il giorno in cui ci conoscemmo. Ero annoiata, in una sdraio a bordo piscina, nel tentativo di prendere un po’ di sole. Non era nel mio stile, quell’estate pigra, ma non avevo trovato di meglio da fare da quando, quella mattina, ero arrivata. Non sarei voluta nemmeno partire per quella vacanza, sola coi miei genitori. Sapevo che non mi sarei divertita. E non avevo ancora capito quanto mi fossi sbagliata. Buffo: non volevo partire, poi non volevo tornare. Il mio ricordo ricomparse e rammentai di come, mentre il sole caldo mi dorava la pelle e le palpebre chiuse, una palla da beach volley avesse interrotto la mia quiete, rimbalzandomi esattamente in testa. Qualche grammo di sorpresa e spavento in più mi avrebbe uccisa, portandomi all’infarto. Prova ne era l’urlo che cacciai, alzandomi di soprassalto.

-Scusa!- sentii alle mie spalle. Un ragazzo dall’espressione mortificata stava venendo a passo svelto verso di me. Era abbastanza alto, il fisico asciutto e i muscoli tonici. I capelli erano scuri e ricci, gli occhi azzurri e luminosi. La sua espressione era più eloquente di mille parole e non mi sarebbe occorsa la spiegazione che diede in seguito. –Scusami, il mio amico non sa controllare la sua forza.- spiegò.

Respirai a fondo, tentando di calmare il cuore che ancora correva per lo spavento. – Non preoccuparti. Mi ha solo preso alla sprovvista.- lo rassicurai, abbozzando un sorriso. Il suo in risposta era di gratitudine al fatto che non avessi protestato.

-Piacere, sono Edoardo.- si presentò.

-Laura.- gli comunicai, restituendogli la palla che nel frattempo avevo raccolto.

-Ehi, ti va di giocare con noi? Prometto di proteggerti da altre cannonate in testa.- mi invitò, con una risata. Naturalmente, accettai volentieri il suo invito e quello fu l’insolito inizio delle nostre straordinarie avventure insieme. Mi presentò al resto della banda: Sara, bassa e magrolina, lunghi capelli biondi e occhi del colore della piscina, somigliante più che mai ad un angelo, nascondeva fra quelle morbide ali apparenti un animo quasi demoniaco, tanto era furba e dispettosa. Non si riusciva mai a fargliela sotto il naso e allo stesso tempo era impossibile scamparne gli scherzi. La cosa più esaltante però era la sua impressionante fiducia in se stessa, che spesso le ammiravo ed invidiavo; Francesca, alta e slanciata, mora e con grandi occhi castani. Calma, matura ma anche infinitamente divertente; Diego, basso, corporatura media, capelli quasi rasati tanto erano corti, e sempre allegri occhi scuri. Era fin troppo esuberante, il tipo di amico che rende divertenti le feste; e infine Giovanni, alto, magro, biondo con gli occhi verdi, timido e perdutamente innamorato di Francesca (corrisposto peraltro, ma non all’epoca in cui li conobbi). Avevano tutti circa la mia età: 17 anni.

Quelle erano le persone con cui avevo passato l’intera estate. Erano le persone che avevo cominciato ad amare. Le persone a cui avrei dovuto dire addio. Il problema era che con loro avevo instaurato un legame davvero particolare: era come se li conoscessi da una vita, anziché da pochi mesi. Avevamo riso, pianto, litigato, fatto la pace... Ci eravamo innamorarti. Già, da quel primo incontro, fra me ed Edoardo era scoccato qualcosa. Quella che nei film chiamano la scintilla. E quella scintilla aveva attecchito e pian piano si era trasformata in fuoco, un fuoco che bruciava entrambi, senza far male. La nostra era una storia lunga tre mesi che ci avrebbe uniti nel ricordo per tutta la vita.

-Non può finire.- mi aveva sussurrato la sera prima.

Già, non voleva, non volevamo gettare acqua su quel fuoco. Eppure qualcosa di simile era sgorgato dai miei occhi a quella frase. Perché, per quanto la sua voce potesse suonare forte e la sicurezza potesse apparire limpida nei suoi occhi d’oceano, sapevo che la fine sarebbe arrivata presto e quel fuoco non avrebbe avuto più nulla da bruciare. Non si poteva evitare l’inevitabile. Il vento della distanza avrebbe soffiato sulla nostra fiamma e l’avrebbe estinta. Questo era ciò che non potevamo impedire.

A quei funesti pensieri una lacrima si liberò dalla prigione dei miei occhi, fuggendo lungo la guancia. Non era però interamente dovuta a quella singola separazione la mia tristezza. Gli altri avevano un posto ugualmente importante nel mio cuore, che si sarebbe svuotato con la loro assenza.

Le lacrime che erano state già versate in compagnia di Sara e Francesca... anche Sara, la dura ed indifferente Sara, aveva pianto. E quando, qualche sera prima, era venuto fuori l’argomento “imminente separazione” mentre eravamo tutti assieme, mi era parso di scorgere un vago luccichio negli occhi timidi di Giovanni e avevo quasi udito un leggero tremore nella voce perennemente sarcastica di Diego. Nessuno di noi voleva andarsene, nessuno voleva abbandonarsi.

-Laura?- mi chiamò la voce di mia madre dalla stanza accanto –Vai a salutare i tuoi amici, fra poco partiamo.-

Quell’annuncio mi fece crollare tutto addosso. Come se il peso che da un po’ sentivo premere sullo stomaco si fosse d’improvviso ingigantito e mi stesse schiacciando. Occorse tutta la mia forza per sostenere quello e trattenere altre lacrime. Uscii dalla casa quasi di corsa, in fuga, ma una volta fuori, rallentai respirando piano. Dovevo essere pronta a quel saluto. Calma. Non potevo pensare al fatto che “saluto” non era affatto la parola giusta, ma solo il mio modo meno doloroso di dire “addio”.

M’incamminai verso la piscina, dove sapevo che li avrei trovati. Mentre procedevo le altre case del villaggio mi sfilavano accanto indifferenti. Tutto lì respirava d’estate e ad ogni passo, ogni boccata d’aria, l’agonia cresceva. Poi la vidi spuntare da dietro l’angolo del bar. La piscina, affollata di gente che rideva e si divertiva ancora, incurante di possibili rientri alla quotidianità. Presi un altro profondo respiro e avanzai. Fra le mille facce sorridenti, non trovai le loro.

-Laura!- mi sentii chiamare. Voltandomi, scorsi Sara che agitava una mano cercando la mia attenzione. Mi invitava ad entrare nella casetta dei giochi per i bambini, quella che per tutta l’estate era stata teatro delle nostre chiacchierate notturne. Li raggiunsi ed entrai nello spazio angusto che i loro corpi, troppo grandi per un gioco da bambini, mi lasciavano.

Mi sorrisero appena entrai e quasi scoppiai a piangere sul momento. Quanto mi sarebbero mancati quei sorrisi...

-Ultima chiacchierata prima della partenza!- annunciò Diego, sorridendo di un’allegria che non aveva. Lo invidiai. Lui, almeno, riusciva a fingere.

-Già.- dissi solo.

Mi sorrisero di nuovo, ad incoraggiamento, ma nei loro occhi vedevo gli imminenti ed inderogabili addii. A quel punto cedetti. Le lacrime che da troppo tempo trattenevo, ruppero gli argini e inondarono i miei occhi, traboccando. Ma non fui sola. Piangemmo tutti. Nessuno riuscì ad evitare il sapore di sale in bocca. Abbracci e carezze non riuscivano a consolarci.

Poi iniziarono le promesse, quelle quasi impossibili da mantenere. Ci giurammo il per sempre, perfettamente consci della sua inesistenza.

-Ci sentiremo su facebook...-  -... per messaggio...-  -... verrai a Bari...-  -...a Milano...-

Pianti e programmi che mi parevano vani. Non mi sfogavano e non mi confortavano.

Diego e Giovanni furono i primi ad uscire, lasciandosi indietro solo pacche sulle spalle, goffi abbracci e lacrime mal trattenute. Poi fu il turno di Sara e Francesca: il nostro abbraccio fu così forte che avrebbe quasi potuto spezzarmi le ossa, ma non fu in grado di comprimere il peso della nostra separazione. Piansero sulle mie spalle ed io sulle loro, rovesciandoci addosso affetto e dolore. Andandosene, si portarono via la mia estate.

Restammo soli, io ed Edoardo. Due anime indivisibili costrette a separarsi. Che paradosso.

Sbirciai i suoi occhi e li trovai immersi nei miei, bagnati come mai li avevo visti prima di allora. Nemmeno quella volta che avevamo litigato. Nemmeno quando avevamo fatto pace.

-Non voglio che tu te ne vada.- mormorò, mentre le sue dita gentili mi sfioravano la guancia umida.

-Non voglio andarmene.- sussurrai l’ovvio, soffocando il mio dolore sulla sua spalla, ora vicina e pronta a sorreggermi. Come aveva sempre fatto in quei tre mesi. Come non avrebbe fatto mai più.

Poi mi prese il viso fra le mani, ancora con quella sua dolcezza infinita che riuscivo a vedere unicamente quando era solo con me.

-Noi non ci perderemo.- assicurò, e ritrovai la sicurezza impossibile nei suoi occhi.

A quel punto mi baciò. Le sue labbra si posarono sulle mie morbidamente ma poi il bacio prese tutta un’altra direzione. Si fece più aggressivo, bisognoso. Era affamato, perché poteva nutrirsi per l’ultima volta. In quel momento dolce e disperato al tempo stesso, mi sentii piena e vuota. L’una perché lui era ciò che mi completava e mi saziava, l’altra perché quella pienezza era destinata a durare solo fino al prossimo respiro.

Quel respiro arrivò e, prima che potesse essere troppo tardi, prima che potessi vedere nei suoi occhi ciò che mi avrebbe incatenata lì, lo usai per sussurrare:

-Addio.-

Corsi fuori dalla casetta, fuori dal villaggio, fuori dalla vita che volevo.

Giurai che mai più avrei stabilito dei legami con una data di scadenza, consapevole del fatto che avrei dato mille cuori sanguinanti per rivivere anche solo la pallida imitazione di quell’estate.

 

L’estate è la stagione di speranza e malinconia: la prima, perché nei mesi precedenti non si fa altro che attenderla, la seconda perché, una volta finita, ci è impossibile accettare la sua rapidità nel trascorrere.